1^ Domenica di Avvento 2019


…con Maria incontro a Gesù con gioia…

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’ arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Al tempo di Noè gli uomini mangiavano e bevevano… e non si accorsero di nulla. Non si accorsero che quel mondo era finito. I giorni di Noè sono i giorni della superficialità: «il vizio supremo della nostra epoca» (R. Panikkar). L’Avvento che inizia è invece un tempo per accorgerci. Per vivere con attenzione, rendendo profondo ogni momento. L’immagine conduttrice è Miriam di Nazaret nell’attesa del parto, incinta di Dio, gravida di luce. Attendere, infinito del verbo amare. Le donne, le madri, sanno nel loro corpo che cosa è l’attesa, la conoscono dall’interno. Avvento è vita che nasce, dice che questo mondo porta un altro mondo nel grembo; tempo per accorgerci, come madri in attesa, che germogli di vita crescono e si arrampicano in noi. Tempo per guardare in alto e più lontano.

Anch’io vivo giorni come quelli di Noè, quando neppure mi accorgo di chi mi sfiora in casa e magari ha gli occhi gonfi, di chi mi rivolge la parola; di cento naufraghi a Lampedusa, di questo pianeta depredato, di un altro kamikaze a Bagdad. È possibile vivere senza accorgersi dei volti. Ed è questo il diluvio! Vivere senza volti: volti di popoli in guerra; di bambini vittime di violenza, di fame, di abusi, di abbandono; volti di donne violate, comprate, vendute; volti di esiliati, di profughi, di migranti in cerca di sopravvivenza e dignità; volti di carcerati nelle infinite carceri del mondo, di ammalati, di lavoratori precari, senza garanzia e speranza, derubati del loro futuro; è possibile, come allora, mangiare e bere e non accorgersi di nulla. I giorni di Noè sono i miei, quando dimentico che il segreto della mia vita è oltre me, placo la fame di cielo con larghe sorsate di terra, e non so più sognare. Se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro…

Mi ha sempre inquietato l’immagine del Signore descritto come un ladro di notte. Cerco di capire meglio: perché so che Dio non è ladro di vita. Solo pensarlo mi sembra una bestemmia. Dio viene, ma non è la morte il suo momento. Verrà, già viene, nell’ora che non immagini, cioè adesso, e ti sorprende là dove non lo aspetti, nell’abbraccio di un amico, in un bimbo che nasce, in una illuminazione improvvisa, in un brivido di gioia che ti coglie e non sai perché. È un ladro ben strano: è incremento d’umano, accrescimento di umanità, intensificazione di vita, Natale. Tenetevi pronti perché nell’ora che non immaginate viene il Figlio dell’Uomo. Tenersi pronti non per evitare, ma per non mancare l’incontro, per non sbagliare l’appuntamento con un Dio che viene non come rapina ma come dono, come Incarnazione, «tenerezza di Dio caduta sulla terra come un bacio» (Benedetto Calati).

Letture: Isaia 2,1-5; Salmo 121; Romani 13,11-14; Matteo 24,37-44

Ermes Ronchi
Avvenire

Il brano fa parte di un più ampio discorso di Gesù, dove l’annuncio centrale riguarda la sua venuta ultima e visibile: “Vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli” (Mt 24, 30-31). È un avvenimento splendido e gioioso: Gesù risorto, nella pienezza del suo potere regale, verrà a raccogliere attorno a sé tutta la famiglia e darà inizio alla festa eterna del Regno di Dio. Così professiamo nel Credo: “E di nuovo verrà nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine”.

Facendosi ancora una volta interprete di un episodio chiave dell’antico testamento, quello del diluvio universale (Gn 6,5-8,22), Gesù sembra voler dire che il pericolo per l’uomo rimane sempre lo stesso, fin dai tempi di Noè: il torpore della coscienza che impedisce la vigilanza. Mangiare e bere, prendere moglie e marito non sono attività di per sé stesse riprovevoli, ma divengono simboli della quintessenza della banalità e della miopia spirituale quando non sono accompagnate dall’attenzione per i segni dei tempi; così il rischio è quello di farsi sorprendere e travolgere dall’inatteso: 1Ts 5,2 “Come la folgore viene da oriente e brilla ad occidente così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”. Questa ignoranza si inscrive nella nostra natura; manifesta che la nostra vita, in fin dei conti, ci sfugge.

L’immagine del diluvio potrebbe indurre a una concezione catastrofica della fine e più globalmente del tempo, accentuando ulteriormente l’intreccio tra tempo e paura. Non è così. Il diluvio è piuttosto, secondo la tradizione, profezia e immagine della Pasqua: tutto un mondo vecchio deve finire, e tutto, nell’arca e dall’arca, cioè in Cristo e da Cristo, deve risorgere nuovo. Questa sembra essere l’originalità assoluta che la fede cristiana assegna alla categoria del tempo e quindi alla prospettiva della storia: non abbiamo davanti a noi la catastrofe della morte ma la pienezza della vita.

Chi accoglie questo annuncio di Gesù vive nell’attesa, colma di speranza, di un lieto evento. La sua venuta segnerà, appunto, la fine di questo vecchio mondo dove dominano l’egoismo, la sopraffazione, l’odio, la morte, e inaugurerà un mondo radicalmente nuovo, fraterno, dove l’unità degli uomini con Dio e tra loro sarà perfetta, la vita piena e la gioia straripante, senza fine. Si realizzerà la visione stupenda del profeta Isaia (2, 1-5: I lettura). Verrà un tempo in cui gli strumenti di guerra (spade, lance) saranno trasformati in strumenti di lavoro e di servizio all’uomo (vomeri, falci): gli uomini disimpareranno a fare la guerra. Novità assoluta, che sarà il frutto della loro conversione a Dio: “Verranno molti popoli e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore…”. Nell’incontro con Lui si scopriranno fratelli. Questa visione del futuro del mondo e della storia è l’esatto contrario dello spettacolo a cui oggi assistiamo. Se dunque, come è vero e giusto, sappiamo che ci attende un giudizio divino, è decisivo sapere che tale giudizio si dà in riferimento alla responsabilità che abbiamo di fronte al compimento divino della storia.

Tuttavia proprio l’ignoranza del momento in cui il Signore ritornerà sembra poter porre una forte ipoteca sull’atteggiamento dell’uomo: vivendo una porzione di tempo necessariamente limitata, storica, è facile farsi cogliere da cali di tensione, dalla tentazione cioè di considerare il ritorno di Cristo come un evento lontano, posto in un tempo indefinito che oltrepassa i limiti dell’esistenza individuale; e se questa era forse già la situazione della comunità per la quale Matteo scrive il suo vangelo, questo atteggiamento riguarda forse ancor più drammaticamente noi per i quali quell’urgenza e quell’imminenza del suo ritorno, di cui Gesù ci parla, sembra aver perso molta della sua forza stringente. Invece questo evento si situa nell’oggi di ognuno di noi, intento alle proprie occupazioni.

Da ciò scaturisce l’esortazione perentoria che il Signore lancia alla comunità: “vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro viene”. La venuta del Signore coinvolge ciascuno di noi già nella sua storia, come ci rivela anche quel verbo coniugato al presente, “viene” (contrariamente al futuro “verrà” delle traduzioni correnti) che accorcia drasticamente ogni distanza. Per la maggior parte degli uomini, e quasi sicuramente anche per noi, questo appello riguarda non il giorno della venuta gloriosa di Cristo, ma quello della nostra morte, in cui la venuta finale di Gesù viene in un certo senso anticipata. Oggi molti tentano di rimuovere il pensiero della morte: vorrebbero vivere spensieratamente e morire senza accorgersene, vivendo sommersi nel torpore dello spirito. Le conseguenze sono ben note: si vive nella distrazione e nella superficialità, non si riflette su ciò che è veramente decisivo, si scommette su tante cose meno che sull’essenziale, si ergono muri contro i fratelli.

Contro la facile tendenza a cercare giustificazioni o attenuanti di tale comportamento nei condizionamenti ambientali e sociali, Gesù riafferma con forza che è l’uomo con la sua libertà a determinare l’indirizzo e l’esito della sua vita: L’appello di Gesù è ripreso in modo accorato da Paolo (Rm 13, 11-14: II lettura): “È ormai tempo di svegliarvi dal sonno…Comportatevi onestamente come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.” Cioè approfondite la vostra relazione con Gesù fino a essere assimilati a Lui. Il paragone con il ladro ci dice di vegliare pur non sapendo in quale veglia il ladro viene. In altre parole, l’effetto sorpresa è ineliminabile, e con ragione l’Apocalisse paragona il Figlio dell’uomo al ladro: “Ecco, io vengo come un ladro; beato chi è vigilante e conserva le sue vesti per non dover andare nudo e mostrare la sua vergogna!” (Ap 16,15).

Gesù invita dunque a vivere in tensione il tempo dell’attesa (ad-tendere appunto) e ciò comporta quello spostamento spirituale e pratico al contempo che Paolo ci suggerisce, fornendoci una splendida esegesi del nostro vangelo: “voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro; voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno […]. (1Ts 5,4-8). Vigilare dunque, per essere pronti ad accogliere in ogni momento la visita del Signore, così come pronte alle nozze sono le vergini che hanno preso l’olio per le loro lampade (Mt. 25,10) e come ancora ci invita a fare Luca “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese” (Lc. 12,35).

Il racconto diventa allora la definizione dello stile di vita del cristiano, che non affonda nel sonno dell’indifferenza, ma è vigile come il padrone di casa, attento anche al più piccolo segnale che gli giunge agli orecchi dal buio della notte. In conclusione, vigilanza non è solo un’attesa paziente della parusìa, tanto meno un’attesa paralizzante del giudizio, ma è il miglior uso possibile dei doni che Dio ci ha fatto, delle poche cose di cui disponiamo. È la virtù del tempo intermedio, il tempo della prova, fra il primo e il secondo Avvento, come dice S. Agostino. E in questa vigilanza si realizza già la nostra gioia “Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a Lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’agnello, la sua sposa è pronta” (Ap 19,7).

Annalisa
Comunità Kairòs