Archivi mensili: Maggio 2021


“Sono con voi tutti i giorni”

Santissima Trinità

  • 30 Maggio 2021

Tempo ordinario, Anno B

Letture: Deuteronòmio 4,32-34.39-40; Salmo 32; Lettera ai Romani 8,14-17; Matteo 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Il Vangelo non offre, per parlare della Trinità, formule razionali o simboliche, ma il racconto di un appuntamento e di un invio. Le attribuisce nomi di famiglia e di affetto: Padre, Figlio, Respiro santo. Nomi che abbracciano e fanno vivere. Ci sono andati tutti all’appuntamento sul monte di Galilea. Tutti, anche quelli che dubitavano ancora, comunità ferita che ha conosciuto il tradimento, la fuga e il suicidio di uno di loro… Ma il maestro non li molla, e compie uno dei suoi gesti più tipici: si avvicinò e disse loro… quando ama Dio compie gesti molto umani. Gesù non accetta distanze: ancora non è stanco di avvicinarsi e di spiegare. Ancora non è stanco di attendermi nella mia lentezza a credere, viene più vicino, occhi negli occhi, respiro su respiro. È il viaggio eterno del nostro Dio “in uscita”, incamminato per tutta la terra, che bussa alla porta dell’umano, e la porta dell’umano è il volto, o il cuore. E se io non apro, come tante volte è successo, lui alla porta mi lascia un fiore. E tornerà. E non dubita di me.

Io sono con voi tutti i giorni. Con voi, dentro le solitudini, gli abbandoni e le cadute; con voi anche dietro le porte chiuse, nei giorni in cui dubiti e in quelli in cui credi; nei giorni del canto e in quelli delle lacrime, quando ti ingoia la notte e quando ti pare di volare. L’ultima, suprema pedagogia di Gesù è così semplice: «avvicinarsi sempre, stare insieme, sussurrare al cuore, confortare e incalzare». Andate in tutto il mondo e annunciate. Affida la fede e la parola di felicità a discepoli con un peso sul cuore, eppure ce la faranno, e dilagherà in ogni paesaggio del mondo come fresca acqua chiara. Andate e battezzate, immergete ogni vita nell’oceano di Dio. Accompagnate ogni vita all’incontro con la vita di Dio e ne sia sommersa, ne sia intrisa e imbevuta, e poi sia sollevata in alto dalla sua onda mite e possente!

Fatelo “nel nome del Padre”: cuore che pulsa nel cuore del mondo; “nel nome del Figlio”: il più bello tra i nati di donna; “nel nome dello Spirito”: vento che porta pollini di primavera e ci fa tutti vento nel suo Vento (D. M. Montagna). Come tutti i dogmi, anche quello della Trinità non è un freddo distillato concettuale, ma un forziere che contiene la sapienza del vivere, una sapienza sulla vita e sulla morte: in principio a tutto, nel cosmo e nel mio intimo, come in cielo così in terra, è posto un legame d’amore. “In principio, il legame”. E io, creato a immagine e somiglianza della Trinità, posso finalmente capire perché sto bene quando sono con chi mi vuole bene, capire perché sto male quando sono nella solitudine: è la mia natura profonda, la nostra divina origine.

Ermes Ronchi
Avvenire

La prima domenica dopo la Pentecoste è celebrazione della Trinità. Una celebrazione che può suscitare perplessità. Si tratta di una festa relativamente recente in quanto è solo nell’VIII secolo che Alcuino redasse una messa in onore del mistero trinitario come sostegno alla pietà privata, tanto che ancora nell’XI secolo papa Alessandro II non ritenne affatto obbligatoria questa celebrazione per la chiesa universale per il fatto che “ogni giorno l’adorabile Trinità è senza posa invocata con la ripetizione delle parole: Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto, e in tante altre formule di lode”. In effetti, questa festa non celebra un evento della storia della salvezza, ma colui che è all’origine di ogni evento di salvezza e che dunque è sempre al cuore di tutte le celebrazioni e di ogni celebrazione.

In ogni caso, noi oggi, dopo aver celebrato il compimento della Pasqua con la Pentecoste e il dono dello Spirito, entriamo nella contemplazione del Dio della prima e della nuova alleanza, del Dio creatore e redentore, il Dio rivelato pienamente da Gesù, il Dio che confessiamo Padre e Figlio e Spirito santo. Ma contemplare il volto di Dio significa anche vedere il riflesso che tale volto ha sulla vita ecclesiale e dunque vedere qual è il volto che la chiesa è chiamata ad assumere per essere fedele immagine del Dio rivelato quale Padre dal Figlio Gesù Cristo nella potenza dello Spirito. Volgere lo sguardo al Dio che ha inviato il Figlio nel mondo significa dunque anche porsi di fronte alla vocazione che la chiesa ha il mandato di adempiere nella storia. Il Dio trinitario è il Dio che è relazione e comunione in se stesso e che chiede alla chiesa, per narrarne il volto nella storia, di articolare le proprie relazioni anzitutto interne in comunione.

Il Dio narrato dal Risorto che invia i discepoli nel mondo dopo aver detto loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18) chiede alla chiesa di esercitare la propria missione di evangelizzazione liberandosi di ogni potere proprio e contando unicamente sul potere universale del Risorto: quelle parole del Risorto sono una liberazione dal potere per i discepoli e per la chiesa, sono una liberazione dall’assillo di un potere umano e consentono alla chiesa di raggiungere ogni gente e popolo. Proprio quella liberazione dalla ricerca di potere umano è ciò che rende evangelizzatrice la chiesa trasformandola da povera chiesa a chiesa povera. Chiesa povera perché nulla le impedisca di essere spazio di presenza del Risorto e di porre ostacoli alla promessa di Cristo che è la vera ricchezza della chiesa sempre: “Io sono con voi fino alla fine del mondo”.

Quest’ultima espressione, che sigilla l’intero vangelo di Matteo, dice il fine ultimo della rivelazione del Dio trinitario: essere presenza accanto agli uomini, essere il Dio con noi, vicino a noi. Anche lì la rivelazione divina diventa indicazione del compito ecclesiale: siamo chiamati a essere presenza, a stare accanto, a farci prossimo, a avvicinarci gli uni agli altri perché la presenza di Dio è narrata da una persona che si fa vicina, da una presenza gratuita. Così è stato per Gesù, tanto che Matteo pone l’intero suo vangelo all’interno di un’inclusione fra il Gesù appena nato che è l’Emmanuele, il Dio con noi (Mt 1,23), e il Risorto che è ancora e per sempre il Dio con noi (Mt 28,20). Dio trinitario è il Dio che si fa presente accanto agli esseri umani con la sua parola e con il suo spirito che sono narrati da Gesù nel suo corpo e nella sua vita. Il come del Dio trinitario, il come si manifesti e agisca la Trinità di Dio noi lo vediamo nel Cristo e lo vediamo testimoniato dai vangeli.

Il testo evangelico si apre con l’indicazione degli Undici. Non i Dodici, ma gli Undici. È la comunità ferita, mancante. Attraversata dallo scandalo del tradimento di Giuda e della sua sconvolgente fine che Matteo ricorda: Giuda morì suicida (Mt 27,5). Il gruppo dei discepoli fu anche attraversato da questa indicibile tragedia: uno dei Dodici, uno degli uomini scelti a chiamati da Gesù a formare la sua comunità, morì suicida. Questo avvenne poco prima che Gesù stesso, arrestato e processato, venisse condannato a morte e crocifisso. Un seguito di eventi sconvolgenti, avvilenti e sfiancanti per la povera comunità di Gesù. Matteo ci pone di fronte a una comunità scossa, vacillante, smarrita, minata nella fiducia reciproca, sorpresa dagli eventi che si sono succeduti con ritmo incalzante negli ultimi momenti della vita di Gesù. Al momento dell’arresto, “tutti i discepoli abbandonarono Gesù e fuggirono” (Mt 26,56), C’è la fuga, la diserzione. Pietro addirittura rinnegò espressamente Gesù imprecando e spergiurando, con parole violente, tanto più urlate quanto più erano menzognere e disperate: “Pietro cominciò a imprecare e a giurare: ‘Non conosco quell’uomo’” (Mt 26,74). Ecco gli Undici. Un gruppo smarrito e spaventato, che deve fare i conti con ferite profonde lasciate da un passato che non potrà certo passare in poco tempo.

Eppure una cosa i discepoli sanno ancora fare. Una sola. L’unica essenziale. Ricordano la parola che Gesù aveva loro detto e vi obbediscono. “Andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro indicato” (Mt 28,16). Che poi il gesto della prostrazione e del contemporaneo dubbio debba essere inteso di tutti gli Undici o solo di alcuni, la sostanza non cambia molto. Se si intende l’espressione greca come fosse un partitivo, si tradurrà: “Vedendolo, si prostrarono, alcuni però dubitavano” (Mt 28,17). In questo caso si sottolinea la divisione interna alla comunità tra chi crede e chi dubita. Se si traduce invece: “Vedendolo, si prostrarono, essi però dubitavano”, la divisione è interna a ciascuno degli Undici. Nel cuore di ciascuno fede e non-fede si affiancano e coabitano. E questo è in continuità con il ritornello matteano della fede che nei discepoli è sempre poca, è sempre oligopistía, fede di breve durata, di fragile consistenza.

Ma l’obbedienza alla parola di Gesù che ancora ricordavano, li àncora all’unica realtà che può dare loro un futuro: la parola del Signore. Obbedendo alla parola del Signore arrivano a incontrarlo. Va sottolineato il coraggio, non sappiamo quanto di fede e quanto di disperazione, nell’obbedire a quella parola. Sono andati là dove Gesù aveva detto loro. A quel Gesù che hanno abbandonato, che le donne hanno incontrato facendosi poi mediatrici del suo messaggio di Risorto ai discepoli (“Andate ad annunciare ai miei discepoli che vadano in Galilea: là mi vedranno”: Mt 28,10), a lui ora essi obbediscono e vanno là dove lui ha detto. Cosa sperano di trovare? Gesù stesso? Forse, forse solo alcuni; tuttavia se essi dubitavano anche mentre si prostravano a lui, è assai probabile che dubitassero anche prima, quando non lo vedevano e non l’avevano davanti.

Tuttavia la potenza dell’obbedienza è tale che, grazie ad essa, gli Undici incontrano il Risorto. E diventano depositari della promessa su cui potranno scommettere tutta la loro vita. Il Risorto promette loro: “Io sono con voi, sempre, tutti i giorni”. Una promessa che impegna però la fede dei discepoli, i quali ogni giorno dovranno esercitarsi all’arte di discernere la presenza del Risorto. E dovranno rinnovare la propria personale promessa fondandosi sulla promessa fedele del Signore Gesù: “Io sono con voi”. La chiesa rappresentata dagli Undici è la chiesa di sempre, credente e incredula al tempo stesso. Ma la poca fede non impedisce al Risorto di affidare a questi poveri credenti il mandato di evangelizzare tutte le genti. Di fronte questi poveri credenti, ecco la fiducia del Risorto che affida loro il compito evangelizzatore. Al quadro della pochezza e lacunosità del gruppo dei discepoli, fa poi contrastante riscontro il quadro di totalità di cui appare depositario il Cristo risorto.

Il testo parla di 4 totalità: totalità dell’autorità che Gesù ha ricevuto da Dio in cielo e in terra (v. 18); totalità delle genti a cui sono inviati i discepoli (v. 19); totalità di ciò che Gesù ha comandato ai discepoli e che questi devono insegnare alle genti (v. 20); totalità del tempo e della storia che vedrà la vicinanza del Risorto ai suoi inviati (v. 20). Come già detto, la condizione per ottemperare la missione che la chiesa riceve dal Risorto è la liberazione dalla ricerca di potere. Il Risorto concentra su di sé tutto il potere che riceve da Dio. Del resto, l’unico vero potere accordato da Cristo ai discepoli è il potere di rimettere i peccati. L’autorità nella chiesa (Mt 16,19), l’eucaristia (Mt 26,28), la missione (Lc 24,47) tendono alla remissione dei peccati.

Sono la struttura spirituale e teologica con cui la chiesa può adempiere il suo mandato evangelizzatore strutturandosi come comunità in cui il potere del Risorto si rende visibile rendendola comunità del perdono, luogo della remissione dei peccati. Sempre la potenza evangelica dell’agire della chiesa è connessa a una perdita di potere mondano, a una dimensione di povertà. La chiesa che guarisce, che perdona, che rimette i peccati è la chiesa che vive la resurrezione di Gesù Cristo. E che risorge lei stessa dietro a lui vivendo libera dal peso del potere. Solo così la chiesa può compiere quella missione che non è soltanto spaziale (tutti i confini della terra), ma soprattutto temporale, in quanto l’evangelizzazione è compito da rinnovare per ogni generazione, per ogni essere umano che viene nel mondo. Ma in questo la chiesa può contare sulla promessa di Cristo: “Io sono con voi fino alla fine del mondo”.

Luciano Manicardi
Monastero di Bose


IL SIGNORE CHE DA’ LA VITA!

Pentecoste

  • 23 Maggio 2021

Anno B

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità (…)».

Quando verrà lo Spirito, vi guiderà a tutta la verità. È l’umiltà di Gesù, che non pretende di aver detto tutto, di avere l’ultima parola su tutto, ma parla della nostra storia con Dio con solo verbi al futuro: lo Spirito verrà, annuncerà, guiderà, parlerà. Un senso di vitalità, di energia, di spazi aperti! Lo Spirito come una corrente che trascina la storia verso il futuro, apre sentieri, fa avanzare. Pregarlo è come affacciarsi al balcone del futuro. Che è la terra fertile e incolta della speranza. Lo Spirito provoca come un cortocircuito nella storia e nel tempo: ci riporta al cuore, accende in noi, come una pietra focaia che alleva scintille, la bellezza di allora, di gesti e parole di quei tre anni di Galilea. E innamorati della bellezza spirituale diventiamo «cercatori veraci di Dio, che inciampano in una stella e, tentando strade nuove, si smarriscono nel pulviscolo magico del deserto» (D.M. Montagna).

Siamo come pellegrini senza strada, ma tenacemente in cammino (Giovanni della Croce), o anche in mezzo a un mare piatto, su un guscio di noce, dove tutto è più grande di noi. In quel momento: bisogna sapere a ogni costo/ far sorgere una vela / sul vuoto del mare (Julian Gracq). Una vela, e il mare cambia, non è più un vuoto in cui perdersi o affondare; basta che sorga una vela e che si lasci investire dal soffio vigoroso dello Spirito (io la vela, Dio il vento) per iniziare una avventura appassionante, dimenticando il vuoto, seguendo una rotta. Che cos’è lo Spirito Santo? È Dio in libertà. Che inventa, apre, scuote, fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio fuorilegge, a Elisabetta un figlio profeta, e che in noi compie instancabilmente la medesima opera di allora: ci rende grembi del Verbo, che danno carne e sangue e storia alla Parola. Dio in libertà, un vento nomade, che porta pollini là dove vuole, porta primavere e disperde le nebbie, e ci fa tutti vento nel suo Vento. Dio in libertà, che non sopporta statistiche.

Gli studiosi cercano ricorrenze e schemi costanti; dicono: nella Bibbia Dio agisce così. Non credeteci. Nella vita e nella Bibbia, Dio non segue mai degli schemi. Abbiamo bisogno dello Spirito, ne ha bisogno questo nostro mondo stagnante, senza slanci. Per questa Chiesa che fatica a sognare. Lo Spirito con i suoi doni dà a ogni cristiano una genialità che gli è propria. E l’umanità ha bisogno estremo di discepoli geniali. Abbiamo bisogno cioè che ciascuno creda al proprio dono, alla propria unicità, e così possa tenere alta la vita con l’inventiva, il coraggio, la creatività, che sono doni della Spirito. Allora non mancherà mai il vento al mio veliero, o a quella piccola vela che freme alta sul vuoto del mare.

Letture: Atti degli Apostoli 2,1-11; Salmo 103; Lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati 5,16-25; Giovanni 15,26-27; 16,12-15

Ermes Ronchi
Avvenire


“andate, profumate di cielo le vite che incontrate !”

Ascensione del Signore

  • 16 Maggio 2021

Anno B

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio (…)

Gli sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne, fedeli e coraggiose. Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno amato molto, e sono venuti tutti all’appuntamento sull’ultimo colle. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù compie un atto di enorme, illogica fiducia in uomini e donne che dubitano ancora, affidando proprio a loro il mondo e il Vangelo. Non rimane con i suoi ancora un po’ di tempo, per spiegare meglio, per chiarire meglio, ma affida loro la lieta notizia nonostante i dubbi. I dubbi nella fede sono come i poveri: li avremo sempre con noi. Gesù affida il vangelo e il mondo nuovo, sognato insieme, alla povertà di undici pescatori illetterati e non all’intelligenza dei primi della classe. Con fiducia totale, affida la verità ai dubitanti, chiama i claudicanti a camminare, gli zoppicanti a percorrere tutte le strade del mondo: è la legge del granello di senape, del pizzico di sale, della luce sul monte, del cuore acceso che può contagiare di vangelo e di nascite quanti incontra.

Andate, profumate di cielo le vite che incontrate, insegnate il mestiere di vivere, così come l’avete visto fare a me, mostrate loro il volto alto e luminoso dell’umano. Battezzate, che significa immergete in Dio le persone, che possano essere intrise di cielo, impregnate di Dio, imbevute d’acqua viva, come uno che viene calato nel fiume, nel lago, nell’oceano e ne risale, madido d’aurora. Ecco la missione dei discepoli: fare del mondo un battesimo, un laboratorio di immersione in Dio, in quel Dio che Gesù ha raccontato come amore e libertà, come tenerezza e giustizia. Ognuno di noi riceve oggi la stessa missione degli apostoli: annunciate. Niente altro. Non dice: organizzate, occupate i posti chiave, fate grandi opere caritative, ma semplicemente: annunciate. E che cosa? Il Vangelo, la lieta notizia, il racconto della tenerezza di Dio. Non le idee più belle, non le soluzioni di tutti i problemi, non una politica o una teologia migliori: il Vangelo, la vita e la persona di Cristo, pienezza d’umano e tenerezza del Padre.

L’ascensione è come una navigazione del cuore. Gesù non è andato lontano o in alto, in qualche angolo remoto del cosmo. È disceso (asceso) nel profondo delle cose, nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come forza ascensionale verso più luminosa vita. “La nostra fede è la certezza che ogni creatura è piena della sua luminosa presenza” (Laudato si’ 100), che «Cristo risorto dimora nell’intimo di ogni essere, circondandolo con il suo affetto e penetrandolo con la sua luce» (Laudato si’ 221).

Letture: Atti 1, 1-11; Salmo 46; Efesini 4, 1-13; Marco 16, 15-20

Ermes Ronchi
Avvenire


Santi Patroni VITTORE E CORONA

AGGIORNAMENTO DEGLI ORARI DEL PROGRAMMA RELIGIOSO:

ORE 16: Fioretto con famiglie comunione e cresima

ore 16.30 Rinnovo della Lampada per la Pace di Castelfidardo e Concelebrazione eucaristica delle 4 Parrocchie :presiede l’Arcivescovo Angelo Spina

ore 17.15 Benedizione alla Città in piazza

ore 21.30 Estrazione della Lotteria Santi Patroni


se sei amato, AMERAI !

VI domenica di Pasqua

  • 9 Maggio 2021

Anno B

Letture: Atti 10,25-27.43-35.44-48; Salmo 97; 1 Giovanni 4,7-10; Giovanni 15, 9-17

EUCARISTIA: esperienza dell’amore di Dio

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici (…)».

I pochi versetti del Vangelo di oggi ruotano intorno al magico vocabolario degli innamorati: amore, amato, amatevi, gioia. «Tutta la legge inizia con un “sei amato” e termina con un “tu amerai”. Chi astrae da questo, ama il contrario della vita» (P. Beauchamp). Roba grossa. Questione che riempie o svuota la vita: questo vi dico perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. L’amore è da prendere sul serio, ne va del nostro benessere, della nostra gioia. Anzi, ognuno di noi vi sta giocando, consapevole o no, la partita della propria eternità. Io però faccio fatica a seguirlo: l’amore è sempre così poco, così a rischio, così fragile. Faccio fatica perfino a capire in che cosa consista l’amore vero, vi si mescola tutto: passione, tenerezza, emozioni, lacrime, paure, sorrisi, sogni e impegno concreto.

L’amore è sempre meravigliosamente complicato, e sempre imperfetto, cioè incompiuto. Sempre artigianale, e come ogni lavoro artigianale chiede mani, tempo, cura, regole: se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore. Ma come, Signore, chiudi dentro i comandamenti l’unica cosa che non si può comandare? Mi scoraggi: il comandamento è regola, costrizione, sanzione. Un guinzaglio che mi strattona. L’amore invece è libertà, creatività, una divina follia… Ma Gesù, il guaritore del disamore, offre la sua pedagogia sicura in due tempi: 1. Amatevi gli uni gli altri. Non semplicemente: amatevi. Ma: gli uni gli altri, Non si ama l’umanità in generale o in teoria. Si amano le persone ad una ad una; si ama quest’uomo, questa donna, questo bambino, il povero qui a fianco, faccia a faccia, occhi negli occhi. 2. Amatevi come io vi ho amato. Non dice “quanto me”, perché non ci arriveremmo mai, io almeno; ma “come me”, con il mio stile, con il mio modo unico: lui che lava i piedi ai grandi e abbraccia i bambini; che vede uno soffrire e prova un crampo nel ventre; lui che si commuove e tocca la carne, la pelle, gli occhi; che non manda via nessuno; che ci obbliga a diventare grandi e accarezza e pettina le nostre ali perché pensiamo in grande e voliamo lontano.

Chi ti ama davvero? Non certo chi ti riempie di parole dolci e di regali. L’amore è vero quello che ti spinge, ti incalza, ti obbliga a diventare tanto, infinitamente tanto, a diventare il meglio di ciò che puoi diventare (Rainer Maria Rilke). Così ai figli non servono cose, ma padri e madri che diano orizzonti e grandi ali, che li facciano diventare il meglio di ciò che possono diventare. Anche quando dovesse sembrare che si dimenticano di noi. Parola di Vangelo: se ami, non sbagli. Se ami, non fallirai la vita. Se ami, la tua vita è stata già un successo, comunque.

Ermes Ronchi
Avvenire


MAGGIO: Preghiamo Maria!

Santa Maria, prega per noi…
noi preghiamo con te…

Invochiamo la fine della pandemia

uniti nella preghiera del Rosario

insieme ai Santuari di tutto il mondo

Trovate il sussidio in Parrocchia


“Rimanete in me e io in voi!”

V domenica di Pasqua

  • 2 maggio 2021

Anno B

io sono la vite, voi i tralci
RIMANETE IN ME!

Letture: Atti 9,26-31; Salmo 21; 1 Giovanni 3, 18-24; Giovanni 15, 1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (…)».

Gesù ci comunica Dio attraverso lo specchio delle creature più semplici: Cristo vite, io tralcio, io e lui la stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. E poi la meravigliosa metafora del Dio contadino, un vignaiolo profumato di sole e di terra, che si prende cura di me e adopera tutta la sua intelligenza perché io porti molto frutto; che non impugna lo scettro dall’alto del trono ma la vanga e guarda il mondo piegato su di me, ad altezza di gemma, di tralcio, di grappolo, con occhi belli di speranza.

Fra tutti i campi, la vigna era il campo preferito di mio padre, quello in cui investiva più tempo e passione, perfino poesia. E credo sia così per tutti i contadini. Narrare di vigne è allora svelare un amore di preferenza da parte del nostro Dio contadino. Tu, io, noi siamo il campo preferito di Dio. La metafora della vite cresce verso un vertice già anticipato nelle parole: io sono la vite, voi i tralci (v.5). Siamo davanti ad una affermazione inedita, mai udita prima nelle Scritture: le creature (i tralci) sono parte del Creatore (la vite). Cosa è venuto a portare Gesù nel mondo? Forse una morale più nobile oppure il perdono dei peccati? Troppo poco; è venuto a portare molto di più, a portare se stesso, la sua vita in noi, il cromosoma divino dentro il nostro DNA. Il grande vasaio che plasmava Adamo con la polvere del suolo si è fatto argilla di questo suolo, linfa di questo grappolo.

E se il tralcio per vivere deve rimanere innestato alla vite, succede che anche la vite vive dei propri tralci, senza di essi non c’è frutto, né scopo, né storia. Senza i suoi figli, Dio sarebbe padre di nessuno. La metafora del lavoro attorno alla vite ha il suo senso ultimo nel “portare frutto”. Il filo d’oro che attraversa e cuce insieme tutto il brano, la parola ripetuta sei volte e che illumina tutte le altre parole di Gesù è “frutto”: in questo è glorificato il Padre mio che portiate molto frutto. Il peso dell’immagine contadina del Vangelo approda alle mani colme della vendemmia, molto più che non alle mani pulite, magari, ma vuote, di chi non si è voluto sporcare con la materia incandescente e macchiante della vita.

La morale evangelica consiste nella fecondità e non nell’osservanza di norme, porta con sé liete canzoni di vendemmia. Al tramonto della vita terrena, la domanda ultima, a dire la verità ultima dell’esistenza, non riguarderà comandamenti o divieti, sacrifici e rinunce, ma punterà tutta la sua luce dolcissima sul frutto: dopo che tu sei passato nel mondo, nella famiglia, nel lavoro, nella chiesa, dalla tua vite sono maturati grappoli di bontà o una vendemmia di lacrime? Dietro di te è rimasta più vita o meno vita?

Ermes Ronchi
Avvenire