Archivi annuali: 2019


é Natale: “Emmanuel” Dio in mezzo a noi

LETTERA APOSTOLICA

Admirabile signum

DEL SANTO PADRE
FRANCESCO

SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE

1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.

Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze… È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.

2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.

Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.

Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.

Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]

È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.

Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]

3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.

Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.

Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.

In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).

4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).

Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.

5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.

«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.

6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.

I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.

Spesso i bambini – ma anche gli adulti! – amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano…: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.

7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).

Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.

8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.

La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.

«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.

Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.

9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.

Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.

I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.

10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.

Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.

Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
 

FRANCESCO


4^domenica di Avvento: Giuseppe, il giusto, sogna!

Tra i custodi dell’attesa è il momento di Giuseppe, uomo dei sogni e delle mani callose, l’ultimo patriarca dell’antico Israele, sigillo di una storia gravida di contraddizioni e di promesse: la sua casa e i suoi sogni narrano una storia d’amore, i suoi dubbi e il cuore ferito raccontano un’umanissima storia di attese e di crisi. Prima che andassero a vivere insieme, Maria si trovò incinta… Allora Giuseppe pensò di ripudiarla in segreto. Di nascosto. È l’unico modo che ha trovato per salvare Maria dal rischio della lapidazione, perché la ama, lei gli ha occupato la vita, il cuore, perfino i sogni. Da chi ha imparato Gesù ad opporsi alla legge antica, a mettere la persona prima delle regole, se non sentendo raccontare da Giuseppe la storia di quell’amore che lo ha fatto nascere (l’amore è sempre un po’ fuorilegge…), la storia di un escamotage pensato per sottrarre la madre alla lapidazione? Come ha imparato Gesù a scegliere il termine di casa “abbà”, quella sua parola da bambini, così identitaria ed esclusiva, se non davanti a quell’uomo dagli occhi e dal cuore profondi?

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». (…)

Chiamando Giuseppe “abbà”, papà, ha imparato che cosa evochi quel nome dolce e fortissimo, come sia rivelazione del volto d’amore di Dio. Giuseppe che non parla mai, di cui il vangelo non ricorda neppure una parola, uomo silenzioso e coraggioso, concreto e libero, sognatore: le sorti del mondo sono affidate ai suoi sogni. Perché l’uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio. Ci vuole coraggio per sognare, non solo fantasia. Significa non accontentarsi del mondo così com’è. La materia di cui sono fatti i sogni è la speranza (Shakespeare). Il Vangelo riporta ben quattro sogni di Giuseppe, sogni di parole. E ogni volta si tratta di un annunzio parziale, incompleto (prendi il bambino e sua madre e fuggi…) ogni volta una profezia breve, troppo breve, senza un orizzonte chiaro, senza la data del ritorno. Eppure sufficiente per stringere a sé la madre e il bambino, per mettersi in viaggio verso l’Egitto e poi per riprendere la strada di casa.

È la via imperfetta dei giusti e perfino dei profeti, anzi di ogni credente: Guidami Tu, Luce gentile, / attraverso il buio che mi circonda,/ sii Tu a condurmi! /La notte è oscura/ e sono lontano da casa,/ sii Tu a condurmi!/ Sostieni i miei piedi vacillanti: /io non chiedo di vedere/ ciò che mi attende all’orizzonte,/ un passo solo mi sarà sufficiente (cardinale John Henry Newman). Anche noi avremo tanta luce quanta ne basta a un solo passo, e poi la luce si rinnoverà, come i sogni di Giuseppe. Avremo tanto coraggio quanto ne serve ad affrontare la prima notte. Poi il coraggio si rinnoverà, come gli angeli del giusto Giuseppe.

Letture: Isaia 7,10-14; Salmo 23; Romani 1, 1-7; Matteo 1, 18-24

Ermes Ronchi
Avvenire

In questa quarta ed ultima domenica di avvento, la liturgia della parola ci parla dell’annuncio e della venuta del Figlio di Dio. Nel brano evangelico Matteo scrive che Giuseppe, sposo di Maria e «uomo giusto», ossia uomo capace di vivere nella giustizia, nella pace, nell’amore fraterno fino alla compassione, e al perdono, pensò non di esporre alla vergogna e al disprezzo la sua promessa sposa – la quale si era trovata incinta per opera dello Spirito Santo -, «ma di ripudiarla in segreto». E, mentre quest’uomo di fede medita nel suo cuore su quanto gli sta accadendo, un angelo del Signore, annota l’evangelista: «gli apparve in sogno…e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”». La grande rivelazione è spiegata dal messaggero divino con questo annuncio: «ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù, egli…salverà il suo popolo dai suoi peccati». Il bambino che nascerà sarà dunque chiamato con un Nome che indica la sua totale appartenenza a Dio e, nello stesso tempo, la missione che egli porterà a compimento vivendo a servizio degli uomini suoi fratelli: Gesù, “Jeshuʻa”, che significa «il Signore salva» e, quindi, Salvatore.

Per Giuseppe lo scandalo si trasforma così in rivelazione ma soprattutto in occasione di obbedienza a Dio a cui «nulla è impossibile» (cf Lc 1, 37). L’autore sacro, a questo punto, commenta: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”, che significa “Dio con noi”». Ebbene sì, «alla pienezza del tempo» (cf Gal 4, 4), ossia al compimento di tutte le promesse e alleanze, Dio ha visitato il suo popolo in modo unico e irripetibile: colui – come afferma l’apostolo Paolo -, che era stato «promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture» si è fatto ʻImmanu-El, Dio con noi in Gesù, il Figlio della Vergine Maria, il Messia «nato dal seme di Davide secondo la carne».

Matteo conclude questo episodio scrivendo che Giuseppe, destatosi «dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Questa conclusione esprime tutta la grandezza di Giuseppe, che consiste nella sua fede-obbedienza: come Maria anche lui ha accettato di fare la volontà dell’Altissimo, accettando di fare ciò che forse non riusciva a comprendere pienamente. È da notare, inoltre, che nessuna parola esce dalla sua bocca, eppure con il suo comportamento di filiale fiducia e obbedienza egli vive la buona novella che più tardi sarà annunciata da Cristo Gesù, Figlio di Dio e secondo la Legge anche figlio suo. Chiediamo a Dio, Padre buono e misericordioso, affinché per intercessione di san Giuseppe, conceda anche a noi di accogliere, con l’ascolto della sua parola e nell’obbedienza della fede, il Verbo della vita, Gesù Signore nostro.

Don Lucio D’Abbraccio


GIOITE: IL SIGNORE E’ VICINO !

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». […]

Sei tu, o ci siamo sbagliati? Giovanni, il profeta granitico, il più grande, non capisce. Troppo diverso quel cugino di Nazaret da ciò che la gente, e lui per primo, si aspettano dal Messia. Dov’è la scure tagliente? E il fuoco per bruciare i corrotti? Il dubbio però non toglie nulla alla grandezza di Giovanni e alla stima che Gesù ha per lui. Perché non esiste una fede che non allevi dei dubbi: io credo e dubito al tempo stesso, e Dio gode che io mi ponga e gli ponga domande. Io credo e non credo, e lui si fida. Sei tu? Ma se anche dovessi aspettare ancora, sappi che io non mi arrendo, continuerò ad attendere. La risposta di Gesù non è una affermazione assertiva, non pronuncia un “sì” o un “no”, prendere o lasciare. Lui non ha mai indottrinato nessuno.

La sua pedagogia consiste nel far nascere in ciascuno risposte libere e coinvolgenti. Infatti dice: guardate, osservate, aprite lo sguardo; ascoltate, fate attenzione, tendete l’orecchio. Rimane la vecchia realtà, eppure nasce qualcosa di nuovo; si fa strada, dentro i vecchi discorsi, una parola ancora inaudita. Dio crea storia partendo non da una legge, fosse pure la migliore, non da pratiche religiose, ma dall’ascolto del dolore della gente: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi guariscono, ritornano uomini pieni, totali. Dio comincia dagli ultimi. È vero, è una questione di germogli. Per qualche cieco guarito, legioni d’altri sono rimasti nella notte. È una questione di lievito, un pizzico nella pasta; eppure quei piccoli segni possono bastare a farci credere che il mondo non è un malato inguaribile.

Gesù non ha mai promesso di risolvere i problemi della terra con un pacchetto di miracoli. L’ha fatto con l’Incarnazione, perdendo se stesso in mezzo al dolore dell’uomo, intrecciando il suo respiro con il nostro. E poi ha detto: voi farete miracoli più grandi dei miei. Se vi impastate con i dolenti della terra. Io ho visto uomini e donne compiere miracoli. Molte volte e in molti modi. Li ho visti, e qualche volta ho anche pianto di gioia. La fede è fatta di due cose: di occhi che sanno vedere il sogno di Dio, e di mani operose come quelle del contadino che «aspetta il prezioso frutto della terra» (Giacomo 5,7). È fatta di uno stupore, come un innamoramento per un mondo nuovo possibile, e poi di mani callose che si prendono cura di volti e nomi; lo fanno con fatica, ma «fino a che c’è fatica c’è speranza» (Lorenzo Milani). Cosa siete andati a vedere nel deserto? Un bravo oratore? Un trascinatore di folle? No, Giovanni è uno che dice ciò che è, ed è ciò che dice; in lui messaggio e messaggero coincidono. Questo è il solo miracolo di cui la terra ha bisogno, di credenti credibili.

Letture: Isaia 35,1-6.8.10; Salmo 145; Giacomo 5,7-10; Matteo 11,2-11

Ermes Ronchi
Avvenire

Se Giovanni Battista ha inviato due dei suoi discepoli a chiedere a Gesù se fosse “colui che doveva venire”, certamente questo vuole dire che persino Giovanni è rimasto sconcertato quando si è reso conto di quello che faceva Gesù. Quello che sconcertava Giovanni non era quello che Gesù diceva, ma quello che faceva, ossia le sue “opere”, non le sue “parole”. Le “opere” si “vedono”, le “parole” si “ascoltano”. E tuttavia il Vangelo ci dice che a richiamare l’attenzione della gente è quello che ognuno fa, non quello che ognuno dice. Negli ambienti ecclesiastici si parla molto, si predica molto; ed in quello che si dice e si predica si dicono cose sublimi. Ma allo stesso tempo capita frequentemente che si fanno cose vergognose ed è meglio nasconderle. Parlare è facile. Caratteristica di Gesù è vivere in modo tale che quello che facciamo porti la gente a pensare, obblighi a farsi domande, ci faccia riflettere tutti sul nostro modo di vivere.

Perché c’è stato lo sconcerto di Giovanni? Perché attendeva un Messia giustiziere, minaccioso, castigatore, per tutti i peccatori, i disorientati, i miscredenti, etc. Questo ha detto Giovanni alla gente nei suoi sermoni vicino al fiume Giordano. Ma emerge il fatto che Gesù, invece di fare questo, si è dedicato a curare ammalati, ad accogliere pubblicani e peccatori, a mangiare con i poveri, ad alleviare pene e sofferenze…Giovanni non si aspettava un Messia così. Giovanni aveva posto la sua speranza in un Messia che lottava contro il peccato. Ma Gesù ha lottato contro la sofferenza. Così Gesù ha modificato la religione. Ha dato un altro orientamento al piano di Dio. Ed ha annunciato una Signoria di Dio basata sull’umano più che sul religioso. Questo non entrava in testa a Giovanni.

E soprattutto, cosa faceva perché le sue opere fossero la prova del fatto che lui era la soluzione e la salvezza? L’argomento fondamentale dato da Gesù, la prova da lui portata non è di carattere sacro, né spirituale, né soprannaturale, né religioso. È qualcosa di umano, molto umano: alleviare pene, dare vita, felicità e buone notizie. Non ci entra in testa che la soluzione non sta nei discorsi, negli argomenti, nelle teorie e nei dogmi. Solo la vita è degna di fede, come solo l’amore merita di essere creduto. Un’opera così semplice come una buona accoglienza in alcuni momenti, un sorriso che accoglie, un silenzio opportuno, uno sguardo di tenerezza, una conversazione di ascolto e senza fretta, il riconoscere che uno si è sbagliato….queste “opere” sono salvezza e speranza.

L’aspetto più scioccante in questo vangelo è che Gesù termina dicendo agli inviati di Giovanni: “Beato è colui che non si scandalizza di me”. Ma come è possibile che “rendere felici coloro che soffrono” sia una cosa che “scandalizza”? Perché ci sono teologi e catechisti che continuano a dire che la sofferenza è un dono divino. Così come ci sono confessori che insegnano che la malattia ed il dolore ci avvicinano a Dio. Coloro che la pensano così, sono persuasi che la missione dei “rappresentanti di Dio” non è “dare felicità e vita”, ma “esigere pazienza e speranza nell’altra vita”. Per questo c’è gente che si scandalizza quando sente dire che Dio è presente nella gioia di vivere, nella felicità dell’affetto umano, nel piacere di sentirsi bene. Gesù ci avverte che bisogna stare in guardia di fronte agli “scandali” di questi insopportabili “bigotti”.

p. José María Castillo
Il dialogo


con MARIA, L’IMMACOLATA, andiamo con gioia incontro al Signore che viene per noi !

Maria di Nazareth

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo» (…).

L’angelo Gabriele, lo stesso che «stava ritto alla destra dell’altare del profumo» (Lc 1,11), è volato via dall’incredulità di Zaccaria, via dall’immensa spianata del tempio, verso una casetta qualunque, un monolocale di povera gente. Straordinario e sorprendente viaggio: dal sacerdote anziano a una ragazza, dalla Città di Dio a un paesino senza storia della meticcia Galilea, dal sacro al profano. Il cristianesimo non inizia al tempio, ma in una casa. La prima parola dell’angelo, il primo “Vangelo” che apre il vangelo, è: rallegrati, gioisci, sii felice. Apriti alla gioia, come una porta si apre al sole: Dio è qui, ti stringe in un abbraccio, in una promessa di felicità.

Le parole che seguono svelano il perché della gioia: sei piena di grazia. Maria non è piena di grazia perché ha risposto “sì” a Dio, ma perché Dio per primo ha detto “sì” a lei, senza condizioni. E dice “sì” a ciascuno di noi, prima di qualsiasi nostra risposta. Che io sia amato dipende da Dio, non dipende da me. Quel suo nome, “Amata-per-sempre” è anche il nostro nome: buoni e meno buoni, ognuno amato per sempre. Piccoli o grandi, tutti continuamente riempiti di cielo. Il Signore è con te.

Quando nella Bibbia Dio dice a qualcuno “io sono con te” gli sta consegnando un futuro bellissimo e arduo (R. Virgili). Lo convoca a diventare partner della storia più grande. Darai alla luce un bimbo, che sarà figlio della terra e figlio del cielo, figlio tuo e figlio dell’Altissimo, e siederà sul trono di David per sempre. La prima parola di Maria non è il “sì” che ci saremmo aspettati, ma la sospensione di una domanda: come avverrà questo? Matura e intelligente, vuole capire per quali vie si colmerà la distanza tra lei e l’affresco che l’angelo dipinge, con parole mai udite… Porre domande a Dio non è mancare di fede, anzi è voler crescere nella consapevolezza.

La risposta dell’angelo ha i toni del libro dell’Esodo, di una nube oscura e luminosa insieme, che copre la tenda, la riempie di presenza. Ma vi risuona anche la voce cara del libro della vita e degli affetti: è il sesto mese della cugina Elisabetta. Maria è afferrata da quel turbinio di vita, ne è coinvolta: ecco la serva del Signore. Nella Bibbia la serva non è “la domestica, la donna di servizio”. Serva del re è la regina, la seconda dopo il re: il tuo progetto sarà il mio, la tua storia la mia storia, Tu sei il Dio dell’alleanza, e io tua alleata. Sono la serva, e dice: sono l’alleata del Signore delle alleanze. Come quello di Maria, anche il nostro “eccomi!” può cambiare la storia. Con il loro “sì” o il loro “no” al progetto di Dio, tutti possono incidere nascite e alleanze sul calendario della vita.

Letture: Genesi 3,9-15.20; Salmo 97; Efesini 1,3-6.11-12; Luca 1, 26-38

Ermes Ronchi
Avvenire

Giovanni, uomo mandato da Dio

In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”». E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: «Abbiamo Abramo per padre!». Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

La seconda domenica di Avvento ci pone in contatto con la figura di Giovanni Battista. Figura che nei vangeli è ancillare nei confronti del Messia, del Veniente, tanto che il Battista è chiamato “precursore” in rapporto appunto a colui che viene “dietro” a lui (Mt 3,11 usa un’espressione che normalmente indica la sequela, quasi a indicare il discepolato di Gesù nei confronti di Giovanni: Mt 4,19;10,38; 16,24): quel Gesù che il Battista dichiara essere detentore di un potere maggiore e portatore di una missione ben più radicale e decisiva rispetto alla sua. Giovanni è colui che sa diminuire, sa cedere il passo a un altro.

“In quei giorni sopraggiunge Giovanni, il Battista” (Mt 3,1): è la prima menzione di Giovanni nel Vangelo secondo Matteo. Egli compare in scena solo ora, improvvisamente. Narrativamente è una sorpresa. C’è un inizio, un cominciamento, di cui Giovanni si fa protagonista. L’indicazione “in quei giorni” è molto generica e non vuole stabilire una sincronia con ciò che è detto prima (dove si parla di Gesù ancora bambino portato dai suoi genitori a Nazaret ritornando dall’Egitto). Si tratta piuttosto di una cronologia teologica che, riprendendo espressioni analoghe presenti nei profeti (Zc 8,23 lxx; Ger 38,29 lxx; Gl 4,1 lxx), indica i tempi messianici, il tempo del compimento dei tempi, i tempi ultimi. Il Battista stesso viene presentato come compimento scritturistico. Letteralmente: “Egli è colui che fu detto per mezzo del profeta Isaia” (Mt 3,3). Di Giovanni, Matteo sottolinea il fatto che predica. “Venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea”. Giovanni è presentato come uomo della parola, più che come battezzatore, come avviene invece nel Vangelo secondo Marco in cui anche la predicazione è totalmente tesa al battesimo (“proclamava un battesimo di conversione”: Mc 1,4).

Matteo accorda rilievo particolare alla predicazione: per lui Giovanni è un profeta, un uomo della parola, abitato dal rigore della parola. La sua ascesi, sottolineata dal suo abito, che è l’abito semplice e rude dei profeti, e il suo cibo essenziale e povero, lo hanno reso un asceta della parola. Chi va all’essenziale ritirandosi nel deserto, chi si lascia istruire dalla solitudine e dal silenzio, chi si misura sull’essenziale del proprio corpo, dunque del cibo e del vestito, viene anche ricondotto all’essenziale umano costituito dalla parola. E la povertà e il rigore del suo vivere gli consentono la libertà della parola che si presenta forte, coraggiosa, perfino aspra. Sempre la povertà è custode della libertà e del coraggio. Il coraggio caratterizza il Battista, uomo che dà inizio a qualcosa di nuovo. E il coraggio è la capacità di dare inizio, è la virtù del cominciamento, di osare iniziare qualcosa anche quando questo è rischioso e mette a repentaglio qualcosa di sé e perfino la propria vita. Giovanni ha osato compiere una scelta e andarvi fino in fondo, percorrendo la via intrapresa fino alle estreme conseguenze, con una perseveranza coraggiosa. Capacità di osare un inizio, il coraggio diviene anche forza di resistere e perseverare nell’opacità del quotidiano, di dare continuità a ciò che si è iniziato.

C’è un coraggio della normalità e della quotidianità, molto più costoso del coraggio dell’istante, dell’atto coraggioso ma slegato da una durata. Giovanni ha operato una scelta contrastata, costosa, sofferta, una scelta di marginalità, di migrazione nel deserto: lui che era di stirpe sacerdotale e il cui padre officiava al tempio di Gerusalemme (cf. Lc 1,5-25), ha preso una decisione di rottura con un ambiente più centrale e importante, per andare nel deserto. Ha operato una scelta che implicava un giudizio su ciò che egli lasciava. Un po’ come avveniva per i membri della comunità di Qumran che abbandonavano Gerusalemme e si ritiravano nel deserto, nelle stesse zone dove i vangeli situano il ministero di Giovanni, per realizzare il programma delineato nella Regola della loro comunità di “separarsi dagli uomini dell’ingiustizia per andare nel deserto a preparare la via del Signore come sta scritto: ‘Nel deserto preparate la via del Signore, appianate nella steppa un sentiero per il nostro Dio’”.

E come ogni decisione coraggiosa, anche quella di Giovanni viene presa nella tenebra, nel buio, nella notte, ma diviene poi una luce per molti, sprigiona la forza di un fiat lux, di indicazione di una via da percorrere per molti. Come avviene qui, dove Giovanni arriva a popolare il deserto facendovi accorrere folle da tutte le parti (Mt 3,5). Il coraggio emerge anche nella solitudine di Giovanni. Il coraggioso osa dire di no, non conformarsi, anche di fronte ai potenti. Come farà Giovanni la cui parola franca e senza compromessi rivolta a Erode gli procurerà la morte: “Erode aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo. Giovanni infatti gli diceva: “Non ti è lecito tenerla con te” (Mt 14,3-4).

Giovanni fa nascere dal silenzio austero in cui ha maturato le sue scelte, una parola semplice e chiara, una parresía che gli costerà la vita. Giovanni è anzitutto un martire della parola. Anche in questo Giovanni apre la strada a Gesù e al coraggio e alla parresía che Gesù manifesterà. A quella parola franca e libera che porterà chi ascolta Gesù a dire: “Mai un uomo ha parlato così” (Gv 7,46). A fronte di Giovanni, martire della parola, vi è chi uccide con le parole. Nella scena descritta superbamente da Marco, Erode con una parola leggera, non pensata, una parola da ubriaco, una parola pronunciata nel corso di un banchetto di fronte a una giovane seducente, mostra come facilmente la parola possa uccidere (cf. Mc 6,17-29). Davvero, Giovanni non solo prepara la via al Veniente, ma fa della sua intera vita la traiettoria che il Messia stesso seguirà. Fino alla morte violenta.

E il coraggio e la parresía del Battista si manifestano anche nelle parole che egli pronuncia verso sadducei e farisei. “Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo disse loro: Razza di vipere…”. Giovanni discerne l’intenzione del cuore di molti di coloro che venivano a farsi battezzare ma che non volevano accompagnare il gesto esteriore dell’immersione con il movimento della conversione del cuore. Colpisce la parola sicura di Giovanni. Come può sapere Giovanni ciò che i sadducei e i farisei pensano nel segreto del loro cuore? Giovanni agisce e parla come profeta, e proprio del profeta era il dono della cardiognosi, della capacità di leggere i pensieri, di conoscere e svelare i pensieri del cuore, come i vangeli diranno più volte anche di Gesù.

Le parole del Battista colpiscono un meccanismo ben noto a ognuno di noi. Il meccanismo dell’autogiustificazione. “Non pensate di poter dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre”, non pensate di potervi adagiare sulla sicurezza di una salvezza che si riceverebbe come in eredità, per diritto, e di non dover fare nessun sforzo di cambiamento, nessuna conversione. Per noi normalmente, nel quotidiano, i meccanismi di autogiustificazione sono più banali, e scattano di fronte a pur minime correzioni, a osservazioni anche di piccola portata. Perché? Perché mai ci sentiamo attaccati? E perché mai ci sentiamo in dovere di difenderci? E di difendere che cosa? Ovvio, un’immagine di sé, che è ciò che spesso ci sta a cuore più della nostra stessa realtà, di chi siamo realmente. L’autogiustificazione è il meccanismo con cui ci ostiniamo a non voler vedere noi stessi in verità, e preferiamo la maschera. E così ci illudiamo, illudiamo noi stessi e gli altri. E, onorando l’etimologia del temine illusione facciamo della vita e delle relazioni un gioco, un ludus.

Giovanni stronca sul nascere i pensieri di giustificazione di sé che insorgono nel cuore di coloro che vengono al suo battesimo. E la scure posta alla radice degli alberi con cui annuncia il giudizio escatologico, diviene la scure della sua parola, vera spada a doppio taglio che recide in radice le pretese di giustizia di farisei e sadducei. La parola di Giovanni qui esercita la funzione di un ventilabro, mette in crisi, ovvero esercita un giudizio, e non a caso sarà ripresa da Gesù quando stigmatizzerà scribi e farisei denunciando la loro ipocrisia: “Razza di vipere” dirà loro in Mt 23,33, come fa qui Giovanni in Mt 3,7. È vero, il giudice implacabile annunciato da Giovanni non si presenterà, verrà il Messia mite e umile di cuore, ma questo Messia avrà una parola forte e tagliente, dura e capace di portare alla luce ciò che normalmente resta nascosto. Non sarà il giudice che condanna, ma la sua parola sarà portatrice di un giudizio, un giudizio necessario per fare la verità, per uscire dai meccanismi della menzogna e dell’autogiustificazione. Per fare la verità occorre in effetti leggere il proprio cuore e riconoscere il proprio peccato, come fanno coloro che si fanno immergere dal Battista. E che credono che la giustificazione non viene da loro stessi, ma da Dio attraverso la fede.

Luciano Manicardi
Monastero di Bose


1^ Domenica di Avvento 2019

…con Maria incontro a Gesù con gioia…

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’ arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Al tempo di Noè gli uomini mangiavano e bevevano… e non si accorsero di nulla. Non si accorsero che quel mondo era finito. I giorni di Noè sono i giorni della superficialità: «il vizio supremo della nostra epoca» (R. Panikkar). L’Avvento che inizia è invece un tempo per accorgerci. Per vivere con attenzione, rendendo profondo ogni momento. L’immagine conduttrice è Miriam di Nazaret nell’attesa del parto, incinta di Dio, gravida di luce. Attendere, infinito del verbo amare. Le donne, le madri, sanno nel loro corpo che cosa è l’attesa, la conoscono dall’interno. Avvento è vita che nasce, dice che questo mondo porta un altro mondo nel grembo; tempo per accorgerci, come madri in attesa, che germogli di vita crescono e si arrampicano in noi. Tempo per guardare in alto e più lontano.

Anch’io vivo giorni come quelli di Noè, quando neppure mi accorgo di chi mi sfiora in casa e magari ha gli occhi gonfi, di chi mi rivolge la parola; di cento naufraghi a Lampedusa, di questo pianeta depredato, di un altro kamikaze a Bagdad. È possibile vivere senza accorgersi dei volti. Ed è questo il diluvio! Vivere senza volti: volti di popoli in guerra; di bambini vittime di violenza, di fame, di abusi, di abbandono; volti di donne violate, comprate, vendute; volti di esiliati, di profughi, di migranti in cerca di sopravvivenza e dignità; volti di carcerati nelle infinite carceri del mondo, di ammalati, di lavoratori precari, senza garanzia e speranza, derubati del loro futuro; è possibile, come allora, mangiare e bere e non accorgersi di nulla. I giorni di Noè sono i miei, quando dimentico che il segreto della mia vita è oltre me, placo la fame di cielo con larghe sorsate di terra, e non so più sognare. Se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro…

Mi ha sempre inquietato l’immagine del Signore descritto come un ladro di notte. Cerco di capire meglio: perché so che Dio non è ladro di vita. Solo pensarlo mi sembra una bestemmia. Dio viene, ma non è la morte il suo momento. Verrà, già viene, nell’ora che non immagini, cioè adesso, e ti sorprende là dove non lo aspetti, nell’abbraccio di un amico, in un bimbo che nasce, in una illuminazione improvvisa, in un brivido di gioia che ti coglie e non sai perché. È un ladro ben strano: è incremento d’umano, accrescimento di umanità, intensificazione di vita, Natale. Tenetevi pronti perché nell’ora che non immaginate viene il Figlio dell’Uomo. Tenersi pronti non per evitare, ma per non mancare l’incontro, per non sbagliare l’appuntamento con un Dio che viene non come rapina ma come dono, come Incarnazione, «tenerezza di Dio caduta sulla terra come un bacio» (Benedetto Calati).

Letture: Isaia 2,1-5; Salmo 121; Romani 13,11-14; Matteo 24,37-44

Ermes Ronchi
Avvenire

Il brano fa parte di un più ampio discorso di Gesù, dove l’annuncio centrale riguarda la sua venuta ultima e visibile: “Vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli” (Mt 24, 30-31). È un avvenimento splendido e gioioso: Gesù risorto, nella pienezza del suo potere regale, verrà a raccogliere attorno a sé tutta la famiglia e darà inizio alla festa eterna del Regno di Dio. Così professiamo nel Credo: “E di nuovo verrà nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine”.

Facendosi ancora una volta interprete di un episodio chiave dell’antico testamento, quello del diluvio universale (Gn 6,5-8,22), Gesù sembra voler dire che il pericolo per l’uomo rimane sempre lo stesso, fin dai tempi di Noè: il torpore della coscienza che impedisce la vigilanza. Mangiare e bere, prendere moglie e marito non sono attività di per sé stesse riprovevoli, ma divengono simboli della quintessenza della banalità e della miopia spirituale quando non sono accompagnate dall’attenzione per i segni dei tempi; così il rischio è quello di farsi sorprendere e travolgere dall’inatteso: 1Ts 5,2 “Come la folgore viene da oriente e brilla ad occidente così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”. Questa ignoranza si inscrive nella nostra natura; manifesta che la nostra vita, in fin dei conti, ci sfugge.

L’immagine del diluvio potrebbe indurre a una concezione catastrofica della fine e più globalmente del tempo, accentuando ulteriormente l’intreccio tra tempo e paura. Non è così. Il diluvio è piuttosto, secondo la tradizione, profezia e immagine della Pasqua: tutto un mondo vecchio deve finire, e tutto, nell’arca e dall’arca, cioè in Cristo e da Cristo, deve risorgere nuovo. Questa sembra essere l’originalità assoluta che la fede cristiana assegna alla categoria del tempo e quindi alla prospettiva della storia: non abbiamo davanti a noi la catastrofe della morte ma la pienezza della vita.

Chi accoglie questo annuncio di Gesù vive nell’attesa, colma di speranza, di un lieto evento. La sua venuta segnerà, appunto, la fine di questo vecchio mondo dove dominano l’egoismo, la sopraffazione, l’odio, la morte, e inaugurerà un mondo radicalmente nuovo, fraterno, dove l’unità degli uomini con Dio e tra loro sarà perfetta, la vita piena e la gioia straripante, senza fine. Si realizzerà la visione stupenda del profeta Isaia (2, 1-5: I lettura). Verrà un tempo in cui gli strumenti di guerra (spade, lance) saranno trasformati in strumenti di lavoro e di servizio all’uomo (vomeri, falci): gli uomini disimpareranno a fare la guerra. Novità assoluta, che sarà il frutto della loro conversione a Dio: “Verranno molti popoli e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore…”. Nell’incontro con Lui si scopriranno fratelli. Questa visione del futuro del mondo e della storia è l’esatto contrario dello spettacolo a cui oggi assistiamo. Se dunque, come è vero e giusto, sappiamo che ci attende un giudizio divino, è decisivo sapere che tale giudizio si dà in riferimento alla responsabilità che abbiamo di fronte al compimento divino della storia.

Tuttavia proprio l’ignoranza del momento in cui il Signore ritornerà sembra poter porre una forte ipoteca sull’atteggiamento dell’uomo: vivendo una porzione di tempo necessariamente limitata, storica, è facile farsi cogliere da cali di tensione, dalla tentazione cioè di considerare il ritorno di Cristo come un evento lontano, posto in un tempo indefinito che oltrepassa i limiti dell’esistenza individuale; e se questa era forse già la situazione della comunità per la quale Matteo scrive il suo vangelo, questo atteggiamento riguarda forse ancor più drammaticamente noi per i quali quell’urgenza e quell’imminenza del suo ritorno, di cui Gesù ci parla, sembra aver perso molta della sua forza stringente. Invece questo evento si situa nell’oggi di ognuno di noi, intento alle proprie occupazioni.

Da ciò scaturisce l’esortazione perentoria che il Signore lancia alla comunità: “vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro viene”. La venuta del Signore coinvolge ciascuno di noi già nella sua storia, come ci rivela anche quel verbo coniugato al presente, “viene” (contrariamente al futuro “verrà” delle traduzioni correnti) che accorcia drasticamente ogni distanza. Per la maggior parte degli uomini, e quasi sicuramente anche per noi, questo appello riguarda non il giorno della venuta gloriosa di Cristo, ma quello della nostra morte, in cui la venuta finale di Gesù viene in un certo senso anticipata. Oggi molti tentano di rimuovere il pensiero della morte: vorrebbero vivere spensieratamente e morire senza accorgersene, vivendo sommersi nel torpore dello spirito. Le conseguenze sono ben note: si vive nella distrazione e nella superficialità, non si riflette su ciò che è veramente decisivo, si scommette su tante cose meno che sull’essenziale, si ergono muri contro i fratelli.

Contro la facile tendenza a cercare giustificazioni o attenuanti di tale comportamento nei condizionamenti ambientali e sociali, Gesù riafferma con forza che è l’uomo con la sua libertà a determinare l’indirizzo e l’esito della sua vita: L’appello di Gesù è ripreso in modo accorato da Paolo (Rm 13, 11-14: II lettura): “È ormai tempo di svegliarvi dal sonno…Comportatevi onestamente come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.” Cioè approfondite la vostra relazione con Gesù fino a essere assimilati a Lui. Il paragone con il ladro ci dice di vegliare pur non sapendo in quale veglia il ladro viene. In altre parole, l’effetto sorpresa è ineliminabile, e con ragione l’Apocalisse paragona il Figlio dell’uomo al ladro: “Ecco, io vengo come un ladro; beato chi è vigilante e conserva le sue vesti per non dover andare nudo e mostrare la sua vergogna!” (Ap 16,15).

Gesù invita dunque a vivere in tensione il tempo dell’attesa (ad-tendere appunto) e ciò comporta quello spostamento spirituale e pratico al contempo che Paolo ci suggerisce, fornendoci una splendida esegesi del nostro vangelo: “voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro; voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno […]. (1Ts 5,4-8). Vigilare dunque, per essere pronti ad accogliere in ogni momento la visita del Signore, così come pronte alle nozze sono le vergini che hanno preso l’olio per le loro lampade (Mt. 25,10) e come ancora ci invita a fare Luca “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese” (Lc. 12,35).

Il racconto diventa allora la definizione dello stile di vita del cristiano, che non affonda nel sonno dell’indifferenza, ma è vigile come il padrone di casa, attento anche al più piccolo segnale che gli giunge agli orecchi dal buio della notte. In conclusione, vigilanza non è solo un’attesa paziente della parusìa, tanto meno un’attesa paralizzante del giudizio, ma è il miglior uso possibile dei doni che Dio ci ha fatto, delle poche cose di cui disponiamo. È la virtù del tempo intermedio, il tempo della prova, fra il primo e il secondo Avvento, come dice S. Agostino. E in questa vigilanza si realizza già la nostra gioia “Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a Lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’agnello, la sua sposa è pronta” (Ap 19,7).

Annalisa
Comunità Kairòs


domenica 24 novembre 2019: CRISTO RE DELL’UNIVERSO

GIUDIZIO UNIVERSALE, altorilievo, opera di Edgardo Mugnoz

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». […]

Sta morendo, posto in alto, nudo nel vento, e lo deridono tutti: guardatelo, il re! I più scandalizzati sono i devoti osservanti: ma quale Dio è il tuo, un Dio sconfitto che ti lascia finire così? Si scandalizzano i soldati, gli uomini forti: se sei il re, usa la forza! E per bocca di uno dei crocifissi, con una prepotenza aggressiva, ritorna anche la sfida del diavolo nel deserto: se tu sei il figlio di Dio… (Lc 4,3). La tentazione che il malfattore introduce è ancora più potente: se sei il Cristo, salva te stesso e noi. È la sfida, alta e definitiva, su quale Messia essere; ancora più insidiosa, ora che si aggiungono sconfitta, vergogna, strazio.

Fino all’ultimo Gesù deve scegliere quale volto di Dio incarnare: quello di un messia di potere secondo le attese di Israele, o quello di un re che sta in mezzo ai suoi come colui che serve (Lc 22,26); se il messia dei miracoli e della onnipotenza, o quello della tenerezza mite e indomita. C’è un secondo crocifisso però, un assassino “misericordioso”, che prova un moto compassione per il compagno di pena, e vorrebbe difenderlo in quella bolgia, pur nella sua impotenza di inchiodato alla morte, e vorrebbe proteggerlo: non vedi che anche lui è nella stessa nostra pena?

Una grande definizione di Dio: Dio è dentro il nostro patire, Dio è crocifisso in tutti gli infiniti crocifissi della storia, Dio che naviga in questo fiume di lacrime. Che entra nella morte perché là entra ogni suo figlio. Che mostra come il primo dovere di chi ama è di essere insieme con l’amato. Lui non ha fatto nulla di male. Che bella definizione di Gesù, nitida semplice perfetta: niente di male, per nessuno, mai, solo bene, esclusivamente bene. E Gesù lo conferma fino alla fine, perdona i crocifissori, si preoccupa non di sé ma di chi gli muore accanto e che prima si era preoccupato di lui, instaurando tra i patiboli, sull’orlo della morte, un momento sublime di comunione. E il ladro misericordioso capisce e si aggrappa alla misericordia: ricordati di me quando sarai nel tuo regno.

Gesù non solo si ricorderà, ma lo porterà via con sé, se lo caricherà sulle spalle, come fa il pastore con la pecora perduta e ritrovata, perché sia più leggero l’ultimo tratto di strada verso casa. Oggi sarai con me in paradiso: la salvezza è un regalo, non un merito. E se il primo che entra in paradiso è quest’uomo dalla vita sbagliata, che però sa aggrapparsi al crocifisso amore, allora le porte del cielo resteranno spalancate per sempre per tutti quelli che riconoscono Gesù come loro compagno d’amore e di pena, qualunque sia il loro passato: è questa la Buona Notizia di Gesù Cristo.

Letture: 2 Samuele 5,1-3; Salmo 121, Colossesi 1,12-20; Luca 23,35-43

Ermes Ronchi
Avvenire

Al termine dell’anno liturgico la liturgia ci invita a contemplare e a riflettere sulla regalità di Cristo. Ma qual è la vera regalità di Cristo? Quella di chi ama, perdona, cerca la comunione con gli uomini suoi fratelli fino alla fine. È la regalità di un Messia che regna non da un «trono comodo», ma «dal legno».

Gesù è appena stato ingiustamente crocifisso: lui, il «Giusto» (cf Lc 23, 47), è appeso ad una croce – sul cui capo viene posta l’iscrizione: «Costui è il re dei Giudei» – in mezzo a due malfattori. Eppure, in questa situazione così ignominiosa Gesù non minaccia, non castiga, non rimprovera, non risponde all’odio con l’odio, ma ha la forza di pronunciare una parola, per noi assurda, inaudita: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (cf Lc 23, 34).

Nonostante questo suo gesto estremo d’amore, mentre il «popolo stava a vedere» Gesù crocifisso, i capi di Israele e i romani lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se lui è il Cristo di Dio, l’eletto». Ma Gesù non accetta di compiere gesti straordinari e spettacolari, non scende dalla croce, non salva se stesso come gli viene richiesto, ma resta sul patibolo che per lui diventa trono di gloria, dal quale viene il giudizio sui superbi e su quanti confidano in se stessi e dal quale sgorgano i fiumi della misericordia e della riconciliazione: «Oggi sarai con me nel paradiso».

Guardiamo spesso a Gesù crocifisso, nostro Re e Signore dell’universo! Volgendo lo sguardo alla croce che domina nelle nostre assemblee e nelle nostre case, impareremo che cosa vuol dire l’espressione: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (cf Lc 9, 24). Guardando il crocifisso dobbiamo imparare, un poco alla volta, a morire al nostro egoismo, alla nostra superbia, alla nostra arroganza, alla nostra ipocrisia.

A Cristo Signore, Re dell’universo, rivolgiamoci ogni giorno con la preghiera che fece il malfattore: «Gesù, ricordati di me». Gesù, re crocifisso, che sulla croce ha mostrato il suo amore per noi e ha accolto la preghiera del buon ladrone, ci doni lo Spirito Santo affinché ci aiuti a camminare con gioia verso la casa del Padre.

Don Lucio D’Abbraccio


CATECHESI DELLE FAMIGLIE

Parrocchia Collegiata S.Stefano Castelfidardo Tel.071 9011428

www.santostefanocastelfidardo.it    email: parrocchia@santostefanocastelfidardo.it

      CATECHESI DELLE FAMIGLIE  2019/2020

                Carissimi, “Gesù Cristo è il volto della Misericordia del Padre”.

 Invitiamo tutti a  fare esperienza del Padre “ricco di Misericordia”, fonte di vita, gioia e pace;

                   pronti a dare testimonianza a chi  ci chiede conto della nostra FEDE. 

   Ci incontriamo il SABATO ORE 15  nel teatrino delle Suore  di S.Anna

                          PRIMI  INCONTRI NECESSARI:

SABATO   9 NOVEMBRE e18 GENNAIO Famiglie quarte elementari (portare il Vangelo)

SABATO  16 NOVEMBRE e 29 FEBBRAIO Famiglie  terze medie  (portare Atti degli Apostoli)

SABATO  23 NOVEMBRE  Famiglie  terze elementari (portare il Vangelo)

SABATO  30 NOVEMBRE  Famiglie   seconde medie (portare Atti degli Apostoli)

Pro-memoria PER LE FAMIGLIE  DELLA COMUNIONE (3^4^ el.)

Sabato ore 14.45- 16.00 :ACR casa parrocchiale.  

Domenica ore 10 S.MESSA con Famiglie e catechisti (Collegiata)

 3^ elementare: Domenica  27 ottobre ore 10  CONSEGNA DEL VANGELO alle Famiglie 

4^  elementare Sabato 1 FEBBRAIO  ore 15  FESTA DEL PERDONO: (veste battesimale)

                         Domenica 1 marzo ore 10:  PRESENTAZIONE DEI COMUNICANDI 

DOMENICA 19 APRILE ORE 10: S.MESSA DELLE 4 PARROCCHIE (stadio “Leo Gabbanelli”)

Ritiro per la Messa di Comunione:  29-30 aprile 2 maggio ore 14.30-16

Mercoledi 29 aprile ore 21: Incontro-preghiera con le  famiglie della Comunione (confessioni)                

DOMENICA 3 MAGGIO: ORE 10 MESSA DI COMUNIONE

14 maggio  ore 18: Processione dei Santi  Vittore e Corona  S.Messa = Abiti di  Comunione

 14 giugno  CORPUS DOMINI  ore 21 S.Messa e Processione   = Abiti di  Comunione

  Pro-memoriaPER LE FAMIGLIE DELLA CRESIMA(2^3^ media)

Sabato ore 14.45: ACR: 2^ Media Casa parr. 3^ Media Toniolo.

Domenica ore 10 S.MESSA con famiglie e catechisti

 2^Media:  Domenica  24 novembre  ore 10 Consegna Atti degli Apostoli alle famiglie

3^ Media: Domenica 29 marzo ore 10 PRESENTAZIONE  DEI CRESIMANDI e PADRINI (persone credenti-credibili-praticanti, che si impegnano  con la preghiera, la parola, l’esempio, il sostegno spirituale e morale,   ad accompagnare i  cresimati)

 7-8-9 maggio  ore 16-17.30: Ritiro per la  S. Cresima

Venerdì 8 maggio ore 21 Incontro con genitori e padrini ( Candela del  battesimo)

S.CRESIMA  DOMENICA 10 MAGGIO ore  11.00

14   maggio: ORE 18  Processione dei  Santi Vittore e Corona Patroni di Castelfidardo

 Domenica 14 giugno  CORPUS DOMINI  ore  21 S.Messa e Processione                                                    

                   PREGHIERA DEI GENITORI

Signore Dio nostro Padre, Tu hai chiamato per nome noi genitori e i nostri figli: fà  che ascoltiamo la tua Parola.

Tu ci conosci e ci ami: fa che durante questi incontri impariamo anche noi a conoscerTi  e ad amarTi sempre di più.

Noi genitori vogliamo accompagnare con la parola e l’esempio i nostri figli:

aiutaci a essere cristiani coerenti nella Fede e portatori di Misericordia. Amen.        

        I Catechisti Educatori-Animatori                                 Il Parroco